lunedì 23 marzo 2015

PITTURA E FOTOGRAFIA: QUALI LEGAMI?

Esistono legami tra fotografia e pittura? Quali sono?
Cerchiamo di individuarne qualcuno.

Estratto dell’intervento tenuto il 20 marzo 2015 in occasione del progetto “Fotografa la vita” (per)corso di fotografia sociale organizzato da La Città della Gioia Onlus.

Argomenti dell'intervento:
  • “La pittura è morta!” (Paul Delaroche nel 1839 in occasione della presentazione della dagherrotipia).
  • Leonardo e la camera obscura.
  • Canaletto.
  • Fotografia: realtà oggettiva.
  • Nascita dell’Impressionismo.
  • Il punto di rottura: innovazione, esplorazione di nuove strade espressive.
  • Il disegno preparatorio e gli schemi geometrici.
  • La colorazione manuale delle foto.
  • Plagio o ispirazione?
  • Luce caravaggesca e il light painting.
  • Fotografia ispirata all’arte per la comunicazione.
  • Fotografia come espressione artistica: quando la fotografia è arte?
  • Fotomontaggi e manipolazione.
  • Seurat e la deforestazione col Photoshop.
  • Seurat e gli stili di vita moderni.

Introduzione

L’intervento si è basato su una serie di riflessioni e considerazioni su quelli che possono essere i legami tra fotografia e pittura cercando di fornire una serie di informazioni a volo di uccello a chi era presente in sala.


Il punto di rottura

In qualsiasi campo, in ogni scibile umano, accadono avvenimenti che definiscono quelli che io chiamo “punti di rottura” che definiscono periodi di transizione fatti di studio, ricerca, approfondimento, per migliorare ed evolvere una nuova scoperta, una nuova teoria.
Il punto di rottura è allo stesso tempo un punto di arrivo e un punto di partenza.


Conservatori e progressisti

I conservatori sono quelli che rinnegano il nuovo, hanno paura del cambiamento, quelli che non riescono a comprendere appieno le opportunità di un’intuizione o di una innovazione. Temono il “punto di rottura”.
I progressisti sono esattamente l’opposto. Sono quelli che abbracciano il senso del “siate affamati, siate folli” di Steve Jobs. Quelli che non accusano di eresia un Galileo Galilei. Quelli del “l’immaginazione al potere”.


La pittura è morta?

Nel 1839, in occasione della presentazione del procedimento fotografico di Daguerre (la dagherrotipia), il pittore Paul Delaroche dichiarò che la pittura era ormai morta in quanto riteneva che ormai non c’era più bisogno di pittori che documentassero o che riproducessero la realtà a causa dell’invenzione della fotografia.
Negli anni successivi e fino ad oggi, la pittura ha invece avuto un susseguirsi di periodi artistici che l’hanno evoluta in nuove forme espressive con contaminazioni reciproche con la fotografia.
A cominciare dall’Impressionismo.


Ma la pittura documentava e riproduceva la realtà?

I re o le famiglie borghesi che si facevano ritrarre, ovviamente dovevano piacersi in quei dipinti. In fondo la pittura era un Photoshop ad olio.
C’è della finzione nella ricostruzione di scene di guerra nei dipinti antecedenti alla fotografia; anche se un lazzaretto poteva essere rappresentato perfettamente, con i suoi ammalati di peste, la stessa luce ambiente, era il medium pennello-colore che anche attraverso la sensibilità dell’artista, falsava la realtà.
La pittura è servita per trasmettere informazioni della vita quotidiana di Pompei, per rappresentare scene mitologiche o religiose.
La pittura insomma, ci ha trasmesso “informazioni” leggibili ancora oggi anche se con una componente di soggettività.


Contaminazioni, associazioni, frullati e shakeraggi

Il caos genera stelle nascenti, Friedrich Nietzsche docet.
In qualsiasi campo si operi, la creatività è sempre vincente.
Essere creativi è la capacità di associare elementi di altre sfere, di altre discipline, connetterle tra di loro, fare un po’ di casino, fare uno shaker intelligente di tali elementi per tirar fuori il nuovo.
Non è sempre importante riuscire a creare qualcosa di buono, utile, ma è importante sperimentare, fare ricerca. Provare e riprovare fin quando si diventa padroni di ciò che si fa. E poi, il tempo definirà i risultati.
Con l’invenzione della fotografia la pittura non è assolutamente morta anzi, proprio grazie allo shock ritenuto come una forma di concorrenza, si sono generate nuove espressioni artistiche di cui non a caso l’Impressionismo è stata quella che ha fatto un po’ il verso alla fotografia.


La camera obscura di Leonardo da Vinci e il Rinascimento

Leonardo descrisse nel suo Codice Atlantico il primo sistema per riprodurre la realtà.
Nel Rinascimento nacquero i primi studi della prospettiva. Fino a quel momento la pittura ne era priva. C’era un gap visivo che fu tappato dagli artisti rinascimentali italiani: Brunelleschi, Leon Battista ne furono i pionieri.
Leonardo tra l’altro diffuse, grazie alla sua opera, la tecnica dello sfumato che si sviluppò poi nel tonalismo. I contorni dei soggetti ritratti erano finalmente ammorbiditi, non più netti ma più realistici. La tecnica dello sfumato iniziava a dare anche l’idea della profondità che oggi in fotografia rendiamo usando diaframmi sufficientemente aperti per sfocare lo sfondo, definendo profondità di campo ristrette.
Prima dell’invenzione della fotografia vi sono stati artisti come Canaletto che hanno fatto uso di quella “scatola” che negli anni fu l’anticipazione della prima camera fotografica di Daguerre usata nel 1837.


Il bisogno di documentare con immagini

Tra le esigenze dell’uomo c’è sempre stata quella di voler riprodurre la realtà per documentarla.
Una riproduzione della “realtà” che ovviamente era condizionata anche dal sentire dell’artista oltre che dalle imposizioni di natura politica o religiosa dei committenti.
Perché in fondo, la realtà non esiste.


Il soggettivismo

Qualsiasi rappresentazione pittorica, fotografica o comunque figurativa, non sarà mai fedele alla realtà.
L’immagine trasferisce informazioni ma non la realtà che a sua volta è strutturata su una quantità infinita di quelle stesse informazioni che non possiamo percepire tutte. Non possiamo nemmeno percepirle alla stessa maniera delle persone che stanno con noi in un determinato momento nello stesso luogo.
La percezione della realtà è diversa per ogni individuo il quale riesce a catturare solo una minima parte delle informazioni presenti in un contesto.
La percezione dipende dal background personale. La percezione è esperenziale.
Ogni persona sviluppa una propria capacità percettiva in base al modo di come ha allenato nel tempo i propri “sette sensi”: vista, olfatto, udito, gusto, tatto + anima e cervello (“cuore e mente” direbbe Henri Cartier Bresson).
Non siamo macchine matematiche e quindi i dati che ci arrivano attraverso i sensi, ognuno di noi li elabora in maniera diversa. È come se ci trovassimo in una commedia pirandelliana.


Realtà oggettiva?

Fotograficamente nessuna fotocamera può quindi riprendere fedelmente, oggettivamente, la realtà.
A parità di inquadratura, punto di vista, ISO, tempo e diaframma, focale ecc., dieci o cento fotocamere di diversa marca, realizzeranno nello stesso istante dieci o cento immagini differenti. Perché esiste il sensore CCD che cattura le sfumature di colore che nemmeno l’occhio umano percepisce, c’è l’obiettivo poco definito e quindi non rende i dettagli, l’obiettivo che vignetta…
Ma, innanzitutto, un’immagine fotografica può fornire informazioni limitate solo all’inquadratura specifica e non del mondo circostante fatto di 360°x360° e di tutti i suoni, odori ecc. circostanti: la realtà che noi viviamo sul posto, praticamente.
Vale per l’immagine giornalistica come per la foto pubblicitaria. Entrambe subiscono un processo di postproduzione che veniva fatto anche con l’analogico, in camera oscura: bruciature e schermature, aumento o meno del contrasto… È l’autore della foto (o il committente) che deciderà fin dove spingersi nella manipolazione per rendere all’osservatore il significato di ciò che ha ripreso cercando di far passare le informazioni da lui percepite attraverso il proprio intervento.
Ecco che non ci resta altro da considerare che fotografia e pittura hanno questa stessa affinità: la soggettività dell’immagine prodotta.


La fotografia fa concorrenza alla pittura? L’Impressionismo risponde

Gli artisti escono fuori dai loro atelier. Ne hanno piene le tasche di disegni preparatori, di attenzione al dettaglio nel dipinto, di perfezionismo prospettico, di colori da preparare artigianalmente e quant’altro.
Il Romanticismo apre la strada alle emozioni, ad una pittura in cui è prevalente la soggettività dell’artista.
Gli artisti non ci stanno ad essere offuscati dall’invenzione fotografica. Reagiscono. Approfittano del “punto di rottura” per dimostrare che la pittura può andare oltre le regole seguite fino alla metà dell’800.
E lo fanno quasi sfidando la fotografia, considerato il massimo medium per la riproduzione della realtà, dimostrando invece che le vibrazioni della luce, il movimento dell’acqua e delle fronde percepiti non potevano essere resi da una foto in maniera emozionale e soggettiva come per un loro dipinto impressionista che restituisce un’informazione della realtà per certi versi attiva, viva.


I capricci d’artista e dintorni

Accade allora che, consapevoli della soggettività della realtà, ci si spinga verso la sua stessa manipolabilità realizzando immagini verosimili, impossibili, surreali o comunque trattate secondo i gusti e la creatività dell’artista.
Canaletto realizzò i suoi capricci d’artista come oggi io stesso creo dei luoghi impossibili di Napoli con dei fotomontaggi realizzati col Photoshop.


Le affinità e i legami tra pittura e fotografia non sono poche

I fotografi vendevano le loro immagini di paesaggi agli artisti che a loro volta le trasformavano in dipinti. Accade ancora oggi che un artista prenda spunto da una foto per dipingere (a volte cadendo nel plagio).
Quando le foto erano in bianconero i fotografi erano anche un po’ pittori perché vi intervenivano colorandole manualmente (v. Felice Beato, pioniere della tecnica).
I fotografi possono ispirarsi all’arte per affinare il loro stile e dare un’impronta “pittorica” alle loro foto usando ad esempio la tecnica del painting light utilizzata per dotare di luce simil-caravaggesca  o alla Tintoretto, le immagini (v. Riccardo Marcialis).
Gli artisti seguivano regole accademiche nel dipingere e quindi schemi geometrici che riprendevano i canoni dell’estetica classica: servivano a dare armonia e ritmo alle loro composizioni.
Un fotografo sa che dare un contenuto armonico all’inquadratura che decide, renderà la foto più leggibile, raggiungibile a più persone. Perché la bellezza è anche perfezione e quindi matematica, geometria. E non parlo solo della regola dei 2/3 da circolo fotografico.
Poi c’è tutto un filone di non-fotografia per lo più fuori dai circuiti di mostre e gallerie perché non definibile come “arte” da chi gestisce il mercato-arte. Sono immagini fotografiche postprodotte in maniera estrema che spaziano dal surrealismo al metafisico fino a raggiungere l’astrattismo.


Conclusioni

Esistono legami tra fotografia e pittura? Sì. Anzi, la conoscenza della pittura e dell’arte tutta, dell’estetica da Aristotele in poi, è una preziosa fonte per un fotografo che non vuole limitarsi a registrare solo informazioni in una immagine, ma anche crearle.

© Marco Maraviglia; TUTTI I DIRITTI RISERVATI.
L'intervento è corredato di trenta slide. Chi è interessato ad organizzare un meeting sull'argomento può contattare l'autore.








venerdì 13 marzo 2015

Il ritrovamento delle foto di Che Guevara

Una storia verosimile. La storia del ritrovamento di alcune foto di Ernesto Che Guevara. Leggetela tutta, è strabiliante!!!

Foto di Alberto "Korda" Gutierrez
È stata trovata una scatola di latta in una cantina di un edificio di Buenos Aires che doveva essere abbattuto.
La scatola conteneva alcune pellicole 35mm che sono state consegnate al sindaco Mauricio Macrì insieme ad altri effetti personali trovati nell'edificio stesso.

Macrì, spinto dalla sua nota curiosità intellettuale ha fatto sviluppare le pellicole da un laboratorio specializzato e la sorpresa è stata eccezionale in quanto le immagini sono state subito attribuite al viaggio in moto nell’America latina compiuto da Ernesto Che Guevara in quanto vi sono anche degli autoscatti che riprendono lui col suo amico e compagno di viaggio Alberto Granado.

Il sindaco Mauricio Macrì ha promesso che sarà allestita una mostra permanente nel palazzo del Comune con alcune di queste immagini che sarà esposta da giugno.

Ora, quanti hanno letto fin qui hanno capito che ho inventato una bufala?
Giusto per dire: una notizia senza fonte attendibile, documentata e verificabile è il nulla.

Il trovare qualcosa affascina e coinvolge il nostro immaginario emotivo.
L'ombra del vento di Carlos Ruiz Zafon, Il favoloso mondo di Amélie, il ritrovamento delle teste di Modigliani, e poi le storie vere di Vivian Maier, i rullini trovati in un mercatino delle pulci con Hitler a Napoli, la storia della valigia messicana con le foto di Gerda Taro, la compagna di Robert Capa.

Sono tutte storie che comunque, vere o false che siano, colpiscono la sensibilità di chi ha un background affettivo (storico, ambientale...) secondo me ricco.
Di quelli che si indignano quando sanno di opere d'arte distrutte o esultano quando si ritrova un Michelangelo.

È certo che se racconto una balla, sono il tipo che dice sempre che si tratta di un fake, di una notizia falsa.
Ma quante notizie che leggiamo anche sui giornali sono al 100% vere? Mi divertivano le prime pagine false di "Il Male" di Vincenzo Sparagna, come mi divertono i titoli di "Lercio".
Dubbi, dubbi, sempre dubbi bisogna avere.

Foto di Alberto "Korda" Gutierrez. Creative Commons.

lunedì 9 marzo 2015

FotogrAmando Napoli. Le passeggiate fotografiche con amore

Che cos’è FotogrAmando Napoli. Il format delle passeggiate fotografiche di Marco Maraviglia che racconta ai partecipanti le analogie individuate tra la fotografia e le fasi di una storia d’amore.


FotogrAmando, amore e fotografia, affinità elettive… è una semplicissima scoperta realizzata nella seconda parte della mia vita.
È stata una piccola illuminazione introspettiva forse anche collegata a quel detto “dimmi come mangi e ti dirò come ami”.
Tra fotografia e amore ci sono analogie che non sto qui a raccontarvi perché mi piace discorrerne durante le passeggiate fotografiche di FotogrAmando Napoli ed anche perché sono così tante che occorrerebbe un piccolo volume per raccontarne.

FotogrAmando Napoli è una passeggiata fotografica che si svolge almeno due volte all’anno: in primavera e in autunno.
È un modo sereno per parlare di fotografia ma anche per scattare. Un workshop peripatetico che si apre con la descrizione generale di una storia d’amore associandone ogni fase a quelle del fotografare.
L’attesa a un primo appuntamento, il colpo di fulmine, il primo incontro amoroso… tutto viene associato ad ogni fase di una ripresa fotografica. Anche quando una storia d’amore finisce, ne resta il ricordo, nel cuore e nella mente, come vecchie fotografie attaccate in un album che custodiamo forse gelosamente in un armadio.

Non sono contro le foto fatte con lo smartphone e condivise su Instagram ma ci sarebbe da fare un dibattito de visu per discutere dell’utilità del mezzo associandolo analogicamente alle fasi di una storia d’amore. E questo sarà qualcosa che inserirò nel prossimo incontro del 21 marzo.

Sono passeggiate che non sono sedute psichiatriche ma fanno star bene. Vi partecipano persone di qualsiasi età che cercano stimoli nuovi per avvicinarsi o per approfondire un po’ di tecnica di ripresa e composizione fotografica mettendo in pratica sulla fotografia il loro miglior modo di condurre il rapporto con una persona. Magari trovando nuovi spunti per amare di più.

L’incontro si chiude con ulteriori riflessioni, continuando il gioco delle associazioni tra amore e fotografia. Si discute, si chiede, si cerca di trovare risposte nuove con l’abilità della discrezione, senza invadere la sfera intima dei partecipanti.
Il giorno dopo, la domenica, è invece un momento di discussione sulle immagini realizzate. È la fase delle "coccole", si vede col Photoshop come possono essere migliorate le immagini, accarezzandole con gli occhi, cercando di tirare fuori attraverso la postproduzione, la percezione dell'istante in cui sono state scattate.

Non si entrerà in un confessionale, ma in un luogo di Napoli per conoscerlo, approcciarlo, innamorarsene, scoprendone dettagli che probabilmente erano passati inosservati percorrendolo chissà quante volte.
Come scoprire nuovi aspetti del nostro partner.

mercoledì 4 marzo 2015

OSSERVARE PER CAPIRE, ROBA DA FOTOGRAFI

San Martino e il povero, di Pietro Bernini © Marco Maraviglia
Un esercizio costante del fotografo è quello di osservare con attenzione ciò che fotografa e chiedersi sempre "perché". È un esercizio costante, quotidiano e a volte visitare un museo è una miniera di informazioni che servono a stimolare curiosità, elemento fondamentale per un fotografo.

Al Museo Nazionale di San Martino (Napoli) è custodito questo altorilievo di Pietro Bernini (padre di Gian Lorenzo) che rappresenta la scena di San Martino nell'atto di tagliare il proprio mantello a un povero infreddolito.
C'era qualcosa che mi incuriosiva di questa scultura. Mi sono chiesto "perché" prima di fotografarla. Qualcosa di strano ha attirato la mia curiosità.

Il braccio mancante sosteneva la spada sguainata per tagliare il mantello in due per offrirne la metà al povero infreddolito (era, secondo la leggenda, l'11 novembre che poi è divenuto quel giorno l'estate di San Martino secondo la novella che tutti conosciamo).

Qui, quel che io noto, sembra che il povero quasi voglia rifiutare, imprecando, con un gesto di estrema umiltà, l'opera caritatevole del buon Martino, respingendo il drappo. Addirittura protendendosi sul cavallo che osserva la scena probabilmente spaventato dalla spada e dall'estraneo (il povero) che gli è quasi addosso.
Si noti l'occhio del cavallo spaventato, la spada (che non c'è ma per la regola della chiusura della Gestalt, la vediamo mentalmente) e la mano del povero che fa presa sul mantello, come siano allineati sullo stesso asse: il centro principale dell'azione è su questa linea.

Il mantello non è teso dalla mano del povero affinché possa facilitare a Martino il compito del taglio. Il povero non tira il mantello a sè ma, anzi, la sua mano è posta proprio nel punto in cui Martino avrebbe potuto effettuare il taglio. Quasi a dire "se tagli il mantello rischi di tagliare la mia mano".
Come quando a tavola qualcuno vuole metterci il formaggio sulla pasta e noi prontamente mettiamo una mano sul piatto perché non ne vogliamo.

Il povero, evidentemente nell'interpretazione di Bernini padre, non poteva non avere l'umiltà che hanno i poveri. Si fece pregare per concedergli parte del mantello.
Del resto anche oggi un povero resta povero se non prende, non accetta, non ruba, non truffa, non fotte il prossimo.
La povertà è probabilmente uno stato d'animo di alta nobiltà umana.
"Perché"?



martedì 3 marzo 2015

L'ATTRIBUZIONE DI UNA FOTO

Perché è importante firmare le proprie foto? Per attribuirne la paternità, sapere chi è l'autore che le ha scattate.
Il problema dell'attribuzione delle opere, ma anche delle foto, coinvolge studiosi che si trovano davanti a mille quesiti quando trovano un quadro di cui non sono convinti se appartenente a Caravaggio o a un suo allievo
.


Ho letto un libro interessante: "Storie di musei", Michel Laclotte; edizioni Il Saggiatore.
Ex direttore del Louvre, Laclotte racconta circa i rapporti intercorsi tra lui e conservatori, collezionisti, donatori, gallerie d'arte, con gli architetti per realizzare il Museo d'Orsay e la piramide del Louvre.

Il libro è illuminante per quanto riguarda il problema delle attribuzioni. A volte dopo un restauro l'attribuzione di un'autore a un'opera inizia a diventare discutibile e allora commissioni di ricercatori, studiosi, tecnici, periti, iniziano a dire la loro.
Ci vogliono grandi conoscenze della materia per attribuire un'opera a un artista a colpo sicuro e la conoscenza non viene solo dagli studi accademici ma da dall'esperienza, dalla ricerca, dalla propria memoria e capacità associativa, dalla capacità di saper andare a consultare libri nelle biblioteche e saper cercare nei documenti degli archivi di Stato.
Museo d'Orsay (Parigi) © Marco Maraviglia / Photo Polis

Anni fa mi capitò di vedere alcune vecchie immagini della sovrintendenza di Napoli di cui non si conoscevano i nomi degli autori.
Sarebbe stato bello poterlo sapere.
Oggi con il riconoscimento di immagini similari di Google è possibile (ma con un margine di errore ancora ampio) riuscire a risalire alla paternità di una foto.
Ma molte foto non sono mai state caricate su internet e però anche nei libri o negli archivi storici leggiamo per alcune foto "anonimo". Ciò resta per me una grave mancanza per un'eventuale esigenza di ricostruire la storia del lavoro dei fotografi attraverso le loro immagini. Perché io sono per il "date a Cesare ciò che è di Cesare".


domenica 1 marzo 2015

QUALI SONO LE RADICI DELLA FOTOGRAFIA NAPOLETANA?

© Marco Maraviglia / Photo Polis

Quali sono le radici della fotografia napoletana degli ultimi 30 anni? Qui un contributo fatto di ricordi per cercare di ricordare qualcuno.

Il titolo di questo post prende spunto da quello di un libro da poco edito da Rogiosi: “Fotografia/la radice napoletana” a cura di Dora Celeste Amato.
Mi sono a lungo soffermato su questo titolo riflettendo sul significato di “radice” e su quell’articolo determinativo “la”, “la radice napoletana”, non “UNA radice” ma proprio “LA”.
Bazzecole, mi sono detto. Sfumature, dettagli inutili, pinzellacchere, ma…

Le radici affondano in un terreno da cui si nutrono. Senza terreno l’albero cadrebbe.
Le radici sono la base di un fusto che da esse viene tenuto in piedi, in alto al tronco si propagano rami dando vita a foglie, fiori e poi frutti.
Undici fotografi, solo undici persone possono definire quello che è stato il tessuto "radi-fotografico" negli ultimi 30 anni a Napoli? Io provo a pensarci…



Invidia o fette di prosciutto?

Non parlerò del libro di cui sopra e del suo contenuto perché ne hanno già parlato alla presentazione tenutasi il 26 febbraio al Gambrinus e poi di un libro fotografico è sempre meglio vederlo e leggerlo piuttosto che parlarne. Non ne parlo anche perché il parterre presente alla presentazione scarseggiava di giovani e ciò lascia riflettere: ai ragazzi oggi forse non interessa un mondo di allori e gloria.

Non ne parlo perché in un contesto dove c’è chi esordisce dicendo che Napoli è una città invidiosa con tutta la classe di chi ha ricoperto una carica istituzionale, non fa parte del mio stile per un’eventuale replica. Perché credo che a Napoli non esiste invidia e nemmeno i clan, almeno voglio crederci dall’alto della mia ingenuità. Però paraocchi e fette di prosciutto sugli occhi sì, su questo siamo messi abbastanza bene.

Voglio invece raccontare quello che sono LE radici della fotografia napoletana, secondo il mio personale punto di vista. Non approfondirò ciò che ho vissuto, che ho visto, che ho saputo ma mi limiterò semplicemente a ricordare qualcosa. Pochi riferimenti per non (far) dimenticare. Non scriverò un elenco di chi ci è stato e c’è ancora, molti fotografi non li conosco anche perché in tanti pur vivendo a Napoli lavorano o hanno lavorato all’estero o per l’estero

Certo che il bisogno di realizzare un piccolo volume enciclopedico sulla fotografia partenopea si avverte nell’aria. Ma ci vorrebbero veri studiosi, super partes, di quelli che farebbero ricerche partendo da zero per comprendere tutta l’evoluzione del complesso reticolo della fotografia in città, almeno degli ultimi trent'anni. Almeno per cercare di affrontare l’argomento “fotografia a Napoli” a 360°. Per rendere onore a chi ha contribuito a tale evoluzione, per non lasciare in un limbo storico chi invece ha generato qualche fiore.

Qui voglio lasciare il mio contributo a tali eventuali futuri studiosi di un fenomeno napoletano che continua a custodire troppi vuoti su ciò che è accaduto negli ultimi anni. Qualcuno deve pure iniziare.
E avanti il prossimo.


Prima delle radici, il terreno.

Senza terreno non esistono radici.
Considero terreno tutta quella filiera di commercianti di articoli fotografici, il parco editoriale, le agenzie pubblicitarie di Napoli.


I negozi di articoli fotografici

Sbrescia si trovava in via Paolo Emilio Imbriani. Aveva anche un magazzino dalle parti di Piazza Garibaldi, ma in quel negozietto sotto via Toledo ci trovavi comunque tutto. Umberto Sbrescia trattava tutti i fotografi con grande abilità. Aveva un quadernone di conti in sospeso perché già negli anni ’80 sapeva che alcuni fotografi non avevano i soldi per pagare il materiale se prima non vendevano il lavoro.

Da Sbrescia si incontrava la crème dei fotografi. Lì vidi per la prima volta Umberto Telesco e Cesare Accetta. Quando arrivava qualche fotoreporter in Vespa, aveva la precedenza nell’essere servito perché erano sempre di corsa: effetti collaterali della fotografia analogica.

Poi c’erano Velotto Romano a P.zza Garibaldi e Spasiano in via Torino dove Aniello era il commesso dalla grande disponibilità ed umiltà.

I foto-negozianti all’epoca erano persone appassionate non di fotografia, ma dei fotografi stessi. Sapevano riservare trattamenti adeguati per ogni fotografo. Consapevoli di essere parte di un terreno che andava coltivato. A volte anche rischiando, prestandoci un obiettivo in prova per un giorno.

Da un portone di via Duomo si arrivava alla putechella congelata dal tempo di Giuseppe Martusciello che per me era il mago dell’aggiusto di reflex, obiettivi e flash. Non c’era fotografo che non si servisse da lui. Poi arrivò il digitale, ma Peppino continuava a riparare attrezzature analogiche pur essendo già in pensione. Recentemente il figlio Mariano ha raccolto in un video-documentario alcune testimonianze rilasciate dai fotografi che conobbero quel piccolo ospedale della reflex in occasione della mostra Antica bottega artigiana Martusciello tenutasi al 65mq di Milano.


Le agenzie pubblicitarie

Le agenzie pubblicitarie storiche di Napoli erano la OCTA di Petronio Petrone, la Ennestudio di Alessandro Niccoli, la Fabris di Silvio, Francesco Del Vaglio… e poi dopo ci furono (tra quelle che ricordo) Arké, la Duea, la Forum, la Baxter - Fisher & Sparice

Alcune di queste agenzie erano gestite da personaggi progressisti che erano sempre a caccia di nuove leve di fotografi da testare, provare. Era in parte una realtà partenopea dinamica ed abbastanza inclusivista. Se potevi offrirgli come fotografo ciò che cercavano, lavoravi per loro anche senza vantare un curriculum particolare. Vedevano il portfolio e al momento adatto si ricordavano che esistevi.

Tra i nomi di fotografi che ricordo e che lavoravano per queste agenzie c’erano il maestro dello still life di Napoli Ugo Pons Salabelle, i fotografi di moda Fabrizio Lombardi, Alfredo Carrino e Ippolito Baly, Quaranta & Nasca, Salvatore Ecuba specializzato in fotografia di arredamento ma noto come cerimonialista, lo Studio Ella di Gennaro Esposito e poi Laura Eboli, Paolo Cappelli e Stefano Greco dell’ex Gruppo Hydra, Massimo Menna e tanti altri tra cui io che dal 1985 promuovevo a Napoli immagini stock di archivio di paesaggi ed altri soggetti sotto il nome di Clik for Look.

Senza poi considerare una cifra di fotografi napoletani che con Napoli hanno avuto ben poco a che fare vantando un parco clienti (inter)nazionale come, ad esempio, Vittorio Guida.


L’editoria

Altro terreno per i fotografi era quel po’ di editoria e giornalismo che c’era a Napoli.
Un territorio, l’ambito dei quotidiani partenopei, piuttosto duro per i free-lance napoletani rispetto a ciò che era il mercato romano e milanese. A tal proposito cito l’esperienza di "auto-restyling" di Toty Ruggieri che da fotoreporter free-lance quale era, vedendo che il mercato del reportage iniziava ad essere stretto, intorno al 2001 sfruttò la sua esperienza di fotografo on the road (street-photography) iniziando a lavorare nel campo della moda.

A Napoli se riuscii a piazzare foto a La Repubblica fu grazie ad Antonio Tricomi che mi presentò Carlo Rossi, l’allora photo-editor; e se riuscii a vendere foto a Il Mattino fu grazie all’indicazione del fotografo Luciano D’Alessandro che senza nemmeno sapere chi fossi mi disse “vai a nome mio”. Altrimenti non sarei mai riuscito ad entrare in quelle redazioni e mi sarebbero restate solo quelle di Roma e Milano che sembrava aspettassero me quando vi andavo.

Fotocine80 era l’unica rivista di fotografia nazionale realizzata a Napoli. Diretta da Ettore Bernabò Silorata ebbe il merito di fare una sorta di censimento dei fotografi di Napoli agli inizi degli anni ’80 realizzando la mostra Napoli e la fotografia alla Sala Gemito.

E poi ci fu NapoliCity il primo giornale nostrano dove per la prima volta si leggeva in un colophon la dicitura “art director” e il ruolo era ricoperto da Toni Di Pace. Officina per tanti aspiranti giornalisti che oggi ritroviamo professionisti nelle principali redazioni. Ma anche un’opportunità per gli emergenti fotografi di moda che definirono un genere tutto partenopeo.

Inoltre c’era un certo tipo di editoria che era terreno per i fotografi che lavoravano sui beni culturali e sul paesaggio di Napoli e le immagini di Liciano Pedicini e Luciano Romano furono per me ottimi riferimenti per comprendere come avvicinarsi a quel genere fotografico.

Nacquero altre riviste come Napoli Guide di cui il capo servizio immagini era Giovanni Mantova (specializzato in fotografia aerea), Team (Art Director Ferdinando Polverino), Napoli Salute (diretto da Carlo Gambalonga) che generarono nuovi fotografi. Poi iniziarono a nascere riviste per destinate a morire dopo 2-3 numeri e che pagavano solo in “visibilità”.

Comunque il mercato principale era su Milano e sfogliando ad esempio le riviste di viaggio e turismo si trovano nomi come Peppe Avallone, Gianni Fiorito (che nel frattempo è diventato la nostra punta di diamante della fotografia di scena per il cinema), Massimo Siragusa, Pasquale Sorrentino, Roberto Della Noce e Francesco Cito che è una delle poche perle del reportage internazionale generata da questa città.

L’elenco dei fotoreporter di attualità, cronaca, gossip, spettacolo, conosciuti tra gli anni ’80 e l’inizio del XXI secolo sarebbe interminabile; ma giusto per aiutare chi si vorrà occupare di un volume enciclopedico cito Enzo Landi (ormai romano di adozione), Ciro Fusco (approdato poi all’ANSA di Napoli), Pino Miraglia, Mario Spada, Stefano Renna, Ciro De Luca, il da poco perso Franco Castanò, Cesare Abate, Giulia NardoneSilvio Siciliano… ed altri ancora che non ho mai conosciuto personalmente. Sono tantissimi.


Le agenzie fotografiche

Non si possono non citare l’onnipresente agenzia fotografica Fornass di Salvatore Sparavigna nata nel 1986 e l'agenzia Controluce fondata nel 1991 da Mario Laporta che non hanno bisogno di ulteriori descrizioni per gli addetti ai lavori.
Luoghi dove sono cresciuti e si sono "fatti le ossa" molti attuali fotoreporter.


I fotolaboratori

“Terreno fotografico” erano anche i principali fotolaboratori di Napoli dove incontravi grandi professionisti e fotoamatori. MEF di Francesco Esposito era il posto in cui andare se volevi un lavoro artigianale fatto secondo le tue esigenze specifiche ed esiste ancora. Copyright a via Cornelia dei Gracchi era l’approdo per chi voleva le diacolor sviluppate in giornata ed era un laboratorio “aggregativo”: le mostre fotografiche che teneva periodicamente diventavano poi calendari di cui tuttora ne conservo le copie. Una piccola curiosità voglio segnalarla: Giuseppe Matarazzo lavorava in Copyright e probabilmente fu a forza di guardare pellicole e cibachrome che sviluppava per i fotografi professionisti che poi iniziò ad occuparsi di fotografia di moda.
Photofast” era ed è tutt’ora il laboratorio “dei gemelli” di via Cisterna dell’Olio. Lo sviluppo di pellicole e la stampa a colori in un’ora, nel centro di Napoli, era l’allora figata per molti fotografi.

I fotolaboratori erano momenti in cui ci si incontrava, conosceva, si sbirciava sui lavori dei colleghi per vedere a cosa stavano lavorando, girava qualche inciucio, ci si scambiava il numero di telefono e poi nasceva qualche collaborazione. Anche se a distanza di anni.


Il concime

Il concime, momenti di conoscenza della fotografia che hanno contribuito alla crescita e allo scambio professionale dei fotografi e alla nascita di alcuni di loro.

Augusto De Luca (oggi noto anche come “il Cacciatore di Graffiti”) dalla metà anni ’80 agli inizi dei ’90, teneva un affollato corso di fotografia presso una sala del laboratorio Krome sito in via San Pasquale a Chiaia.

L’Associazione Nazionale di Fotografi Professionisti TAU Visual stimolava incontri tra i soci per scambiarsi consigli e competenze che poi si sono evoluti negli attuali incontri denominati Senior meet Junior in quanto aperti gratuitamente alle nuove emergenze. Tra i soci di TAU Visual conobbi Massimo Vicinanza (sconosciuto a molti in città perché ha quasi esclusivamente lavorato per la stampa estera) e col quale poi recentemente abbiamo fondato l’associazione culturale Photo Polis; Davide Visca (pioniere di una proposta ai soci per la realizzazione di un sito web a costi irrisori per l’epoca); Roberto Macrì (attualmente tecnico specializzato dell’archivio della sovrintendenza di Bologna) era un altro socio di TAU Visual e fu pioniere con Newpoli del primo centro di servizi per la fotografia (1983).

A metà degli anni ’90 Sergio De Benedittis (prematuramente scomparso) in Piazza San Domenico Maggiore mise sù Nigma Fotografi, una vera e propria factory, un’officina fotografica che produsse nuove realtà fotografiche come Sergio Grispello e l’attuale Studio .1 di Pasquale Sanseverino. Ancor prima, nella casa di Sergio in via Caldieri ci si riuniva col “gotha” della fotografia napoletana e con Vera Maone intendeva realizzare “qualcosa”. Riunioni che poi furono ospitate presso l’Archivio Parisio (rilevato da Stefano Fittipaldi) e che portarono alla programmazione de I lunedì della fotografia aperti al pubblico.

Intanto nel 1992 nasceva la ILAS come scuola di grafica ed oggi anch’essa fa parte di quel terreno che stimola e forma nuovi aspiranti fotografi.


Le mostre

Sono stato un pessimo frequentatore di mostre fotografiche. Per me la fotografia andava guardata, osservata sulle riviste patinate, sui libri, sui "6x3" o all’interno delle brochure pubblicitarie perché ho sempre pensato che, siccome pagata da qualcuno, da un editore o altro tipo di committente, aveva un suo valore già comprovato.

Però ricordo la prima mostra che vidi a un Fotocine alla Mostra d’Oltremare, credo fosse nel 1983. Rimasi colpito dalla suggestiva brillantezza del cibachrome e, ricordando quella collettiva di fotografi, mi rendo anche conto di quante immagini attualmente vengano appese inutilmente a un chiodo.


Radici

Le radici affondano nel terreno e man mano danno vita a un fusto sempre più forte che si ramifica facendo nascere foglie e poi fiori e poi frutti.
Quanti frutti sono nati dalle radici della fotografia di Napoli? Quanto è stato fertile il terreno?

C’è qualche fotografo professionista che può affermare di avere avuto un Maestro che gli ha insegnato l’arte della fotografia?
Io non lo so perciò me lo chiedo.
Ti va di dare il tuo contributo per questa mia ricerca?


Oggi

Oggi vedo in rete tante buone immagini di fotoamatori che spesso hanno poco o nulla da invidiare ai professionisti “storici”. Nessuno ne parla. Nessuno tra gli addetti a lavori, tra quelli che “scrivono la storia” ha la volontà “politica” di scoprirli e questo credo sia un danno per l’evoluzione e l’internazionalizzazione della fotografia partenopea ce viene così penalizzata spostando irrimediabilmente i riflettori su altre città.
Perché ritengo il nuovo scenario napoletano un’eccellenza.

Molti fotografi sono autodidatti. Alcuni hanno una padronanza del Photoshop strepitosa. Altri lavorano a progetti interessanti che probabilmente non vedranno mai la stampa perché c’è crisi ma anche perché mancano editori illuminati, agili.

Ne conosco di questi fotografi ma parlarne ora significherebbe tediarvi con altri fiumi di parole. Facciamo che magari mi riservo di raccontarvi di loro più in là. Il tempo di ripulire un po’ di naftalina.

© Marco Maraviglia –tutti i diritti riservati – Vietata la riproduzione anche parziale di questo testo senza il consenso dell’autore.
Si ringrazia Massimo Vicinanza per l'editing del testo.

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