martedì 24 ottobre 2017

Salgado, l’espressionista in bianconero della Terra tinto di color intrigo

Fino al 28 gennaio Salgado in mostra al PAN di Napoli con Genesi.
Un artista, più che fotografo ma spuntano dalla rete alcune contraddizioni sul suo messaggio ambientalistico.



Genesis. Da dove inizia il mondo.

Brasile 2005; © Sebastião Salgado/Amazonas Images/Contrasto 
Le immagini di Salgado si ascoltano, le osservi e senti quei silenziosi brusii delle distese immense di terre ghiacciate comandate da pinguini e iceberg. Ascolti il fogliame delle foreste sfiorato dalla brezza lenta. Senti il mare setato. Avverti l’ansimare delle renne che migrano faticosamente nella neve. E ascolti l’allegria delle nude donne amazzoni che scendono il corso di un ruscello sorreggendosi tra loro e dalle movenze che ricordano le bellezze di Canova o le Venere di Mucha, Botticelli e dintorni.

Suoni, rumori e parole essenziali. Atmosfere audio da new-age. Si parla poco a migliaia di chilometri da qui. Solo parole utili. Niente talk-show, niente blablabla, niente politichese. La sopravvivenza in terre dove non ci sono supermercati, energia elettrica, auto… conduce all’essenziale assoluto.
Alla Genesi. Lì, dove tutto ha origine.


Salgado mito

È Sebastiao Salgado che ci regala queste emozioni. Un distinto signore che tra la folla dell’inaugurazione di Genesi al PANPalazzo delle Arti di Napoli, sembrava che provasse un leggero disagio. Forse abituato a rispettare le folle di pinguini, trichechi, renne, probabilmente gli fa un certo effetto vedere gli umani che si stringono a lui senza rispettarne lo spazio vitale come se fosse, senza volerlo, la rock-star del momento.

È Salgado, l’ex economista che decide di attraversare i luoghi dove la natura è ancora incontaminata ma comunque a rischio a causa di quella mano umana che sbaglia; sbaglia anche ad appendere una delle sue fotografie che lui stesso, in una delle sale espositive del PAN, provvede con la moglie a capovolgerla nel verso giusto.

Corporatura asciutta, cranio scolpito, con lo sguardo affollato di tutte le immagini che ha visto nei luoghi più lontani dall’uomo. Sembra un asceta. Dall’espressione leggermente tormentata.


Bianconero

Chi lo dice che la fotografia in bianconero annoia? Chi dice che solo il colore può rendere la bellezza dei luoghi nella sua interezza?
Chi ha frequentato qualche corso di fotografia in bianconero avrà sentito dire che il bianconero serve a “drammatizzare” la scena, a non distrarre l’attenzione da ciò che deve effettivamente essere visto. Ma quanti corsi di fotografia riescono a trasmettere i trucchi e segreti per una lavorazione del bianconero a regola d’arte?


Bianconero d’artista

Credo che Salgado vada visto come artista prima che fotografo, perché riuscire a raccontare la vita contemporanea del pianeta terra con la sola scala dei grigi non è qualcosa che può permettersi chiunque.
A qualcuno non piace l’estetizzazione estrema e pittorica delle sue immagini ma, diciamoci la verità, non è un fotoreporter nell’accezione più pura del termine ma un borderline, un solitario, uno che va per la sua strada superando non solo i confini geografici ma anche quelli tra fotografia ed arte, tra reportage e pittura. Se poi riconosci una sua foto tra cento, significa che ha probabilmente reso universale un modo di percepire.


La tecnica

I suoi bianconeri ricordano quei fotografi che usavano sapientemente i filtri colorati davanti all’obiettivo per esaltare la densità cromatica del cielo aumentandone il contrasto con le nuvole o far spiccare le chiome degli alberi con un filtro color verde, cyano, rosso e, ancora, quelli a densità neutra per aumentare i tempi di esposizione per “setare” il mare o per ovattare le nuvole. Filtro polarizzatore? Effetti a infrarossi? Maestria del bianconero. Maestria della postproduzione. Quella delle spennellate non casuali in Camera Raw e del giusto dosaggio di chiarezza, luci, bianco, curve di livello…

E personalmente glielo perdono qualche trucco in più perché non mi convincono certe ombre, alcuni contrasti tra la terra e l’acqua, certi piani innaturalmente sfocati o mossi; perché comunque fanno parte della percezione del fotografo che vuole restituire all’osservatore. La percezione se non è condivisa fa perdere parte dell’utilità di una foto.

Anche in certa pittura del Rinascimento e del ‘600 la luce era artificiosamente innaturale, con punti luce di candela nella scena e che l’artista ovviamente non ritraeva. Era una sorta di paint-lighting della fotografia ante litteram.

Gliele si perdonano queste manipolazioni perché ti rendi conto che c’è comunque una grande impostazione fotografica di base come il sapersi scegliere la luce di albe e tramonti, i controluce e tutto ciò che resta della gamma di luce estrema.


L’espressionismo

Se volessi collocare Salgado in un genere artistico-pittorico, direi che è un espressionista.
Il dramma del pianeta vissuto in una calma apparente. L’uomo e il suo mondo raccontati non con un CCD ma con le sensazioni assorbite dal fotografo che ridipinge i suoi ricordi per restituirci percezioni simili a quelle da lui stesso vissute sul luogo.

Nessuna fotocamera produce una fotografia corrispondente alla nostra memoria visiva ed emozionale dell’istante in cui l’abbiamo scattata. Perciò dobbiamo sempre manipolarla per restituirle ciò che abbiamo visto al momento dello scatto. Esasperando la post-produzione entriamo nella sfera soggettiva, nell’interpretazione dell’immagine. Per ricreare ciò che abbiamo sentito dentro e non solo quel che abbiamo visto. Ma per un’elaborazione digitale espressionista bisognerebbe essere padroni innanzitutto del nostro cuore oltre che dello strumento. Saper trasformare sensazioni in numeri.
In realtà si è sempre fatto così. Anche H. C. Bresson preferiva scurire i suoi cieli in camera oscura.


L’attivismo e le contraddizioni

Ed eccoci a quella che qualcuno definirebbe la "dark side" di Salgado. Il suo patto col diavolo o, se si guarda da un altro punto di vista, la sua lotta col diavolo da riconvertire.

Brasiliano e quindi sensibile a tutte le problematiche di sfruttamento ambientale del suo Paese, fondò nel 1998 con la moglie Lelia Deluiz Wanick Salgado, l’Instituto Terra organismo per lo sviluppo sostenibile della Rio Doce Valley e con encomiabili progetti di riforestazione su grande scala.

Ottimo. Ma gli ambientalisti contestano che L’Instituto Terra abbia tra i maggiori sponsor di Genesis, la multinazionale Vale che si occupa di estrazioni minerarie ed è responsabile (nella misura del 9% ci tengono a precisare Salgado e la Vale) del crollo di una diga che ha causato uno tsunami contaminato da rifiuti tossici e che ha distrutto il villaggio di Bento Rodrigues.

Insomma, ci si trova di fronte a un problema etico di cui lo stesso Salgado cerca di dare giustificazioni che però non soddisfano in pieno gli ambientalisti.
In merito è interessante la chiusura di un articolo del 2014 di Irene Guida su Exibart:

“Questo mi sembra il limite politico di questa mostra, sponsorizzata insieme da WWF e da Vale, la più grande compagnia mineraria di estrazione di ferro della valle del Rio Doce, cui i genitori di Salgado si sono rifiutati di vendere i terreni perché non fossero utilizzati a fini estrattivi e che ora i figli stanno rinaturalizzando.
In questa ambiguità risiede la potenza e la speranza consegnata da Salgado alla società e ai propri potenti sponsor. Una condizione che ci riguarda tutti e che costituisce il vero significato politico, forse non interamente volontario di questa mostra. La condizione di ambiguità dell'ambientalismo è centrale; con questa ambiguità dovremo abituarci a coesistere perché il corpo esposto della terra ha lo stesso valore del corpo nudo delle modelle, degli schiavi e delle risorse che non si rinnovano, per quanto possiamo cercare di rigenerarle.”

Evitare certa arte per un senso etico-morale?

C'è qualcuno che non entra nei palazzi di architettura fascista tipo il palazzo delle poste a P.zza Matteotti a Napoli o la Mostra d'Oltremare?
Leonardo da Vinci progettava atroci e violentissime macchine da guerra per il potere. Tanti pittori ritraevano i Reali che ordinavano guerre. Ma oggi nessuno si sogna di evitare la visita al Louvre per non vedere la Gioconda come invece qualcuno ha proposto in rete di boicottare la mostra di Salgado.
È vero, ci sono salti temporali e i fatti non sono contemporanei, ma una mia parte morale mi fa pensare che Leonardo oltre ad essere un genio era un bastardo.
Tutta la vita è così. Non dico che c'è da rassegnarsi ma l'importante è essere consapevoli delle scelte etiche fatte da chi ci propone il suo lavoro.
Per prendersi solo il meglio che c'è della Grande Bellezza.


“Genesi” – Sebastião Salgado
Pan/Palazzo Arti Napoli
Via dei Mille 60 – 80122 – Napoli
Fino al 28 gennaio 2018
Orari: tutti i giorni tranne il martedì dalle 9,30 alle 19,30
La biglietteria chiude un’ora prima

mercoledì 13 settembre 2017

FOTO DUNQUE SONO

Scenari sociali e psicologici sul vuoto iconografico che stiamo consegnando alle generazioni future.



Un neonato censurato
Ero così brutto da neonato che la mia prima foto dell’infanzia stampata su carta fotografica risale a quando avevo circa due anni.
In casa si raccontava che ero nato con gli occhi storti e le orecchie accartocciate e per questo motivo mio padre ebbe il buon senso di non stampare, tra le centinaia di foto che scattava con la sua Rolleiflex, quelle risalenti ai miei primi 24 mesi di vita.
Fatto sta che scoprii soltanto durante l’adolescenza quei negativi mai stampati. Capii che ero io in quei 6x6 perché in essi riconobbi i miei fratelli più grandi che mi stavano accanto.

Nel frattempo, prima di scoprire quei negativi e di cui non ero ancora poi tanto convinto della mia deduzione, vissi un periodo di estrema angoscia che solo adesso racconto. Fui travolto da un’atroce crisi d’identità che non auguro a nessun bambino di vivere: non avendo mai visto la tipica foto che mi ritraesse in clinica con mia madre, iniziai a credere di essere stato adottato. Preso in qualche orfanatrofio.

A peggiorare la mia crisi fu anche uno sceneggiato che mandava in onda la tv in quel periodo la cui storia raccontava proprio la vita di un bambino adottato.
Giornate, mesi, forse per diversi anni fui pervaso da questo dubbio che non feci trapelare. Non chiedevo conferme ma cercavo di indagare, da solo, sentendomi in quella che mi sembrava la peggiore delle cospirazioni in cui si potesse trovare un individuo.

Poi mi sono veramente sentito parte genetica della mia famiglia soltanto quando i miei caratteri somatici cominciarono a definirsi nel tempo e iniziai a riconoscere nel mio volto gli stessi tratti dei miei cari.

Forse se non avessi mai visto da bambino le foto fatte in clinica a mio fratello e mia sorella, non mi sarei mai posto il problema e per chissà quanti anni avrei pensato che la mia vita cominciava lì, a due anni, col ciucciotto in bocca, un Topolino in gomma in una mano e con l’altra che cercavo di stare in piedi aggrappandomi alla ringhiera di un balcone.

……………….


Foto dunque sono.
Senza foto che raccontino il nostro passato è come se non fossimo esistiti. O meglio, esistere ma senza prove identitarie. Se non c’è la foto quell’istante è già nell’oblio.
La memoria e le emozioni si disperdono nel tempo.
Perché non possiamo ricordarci tutto. Quante volte ci capita di rivedere una poi non tanta vecchia foto e ricordarsi qualcosa che avevamo totalmente rimosso?

Oggetti tramandati o raccolti durante i viaggi non potranno mai restituirci la stessa memoria che ci rende un album fotografico. La memoria visiva non ha le informazioni delineate che ha una foto.

Si dice che siano state scattate più foto negli ultimi quindici anni che in tutto il cinquantennio precedente producendo un notevole byte-inquinamento e, paradossalmente, ne sono state stampate molte meno su carta.
Il fatto è che ancora non tutti sanno che da sempre un file fotografico può essere stampato sulle stesse carte “ciripiripì” e negli stessi fotolab dove portavamo a sviluppare i rullini delle vacanze. Almeno quelli che sono sopravvissuti. Perché non esiste solo la stampa su carta di pura cellulosa fineart, quella a sublimazione, quella “fotografica” per la stampantina da tavolo a ink-jet ecc. ecc.
Il bello è che non tutti sanno che, nonostante l’inflazione, la crisi economica ecc. ecc., la stampa delle foto col vecchio procedimento in bagni chimici costa quanto 15 anni fa. Cambia solo il supporto originale: non più la pellicola, il negativo, ma dischetto, “pennetta”, scheda di memoria, trasmissione file via internet…

S1m0ne non esiste e forse nemmeno noi esisteremo 
Di una foto se non ne possiedo il supporto analogico, se non posso toccarla, non sarà mai mia perché la foto digitale è una “S1m0ne”, come un inafferrabile ologramma. È pixel. Immateriale, virtuale, matematico. Vedo ma se non è tattile, per me non esiste.
Sono immagini che non ci appartengono perché non possiamo toccarle come una stampa di un album fotografico, una diacolor, un negativo bianconero o una vecchia lastra fotografica. E, cosa più inquietante, potrebbe auto-distruggersi improvvisamente senza mostrare i primi sintomi di deterioramento.
I file digitali non si ammalano: muoiono improvvisamente.
Sarà anche per questi motivi che alcune case stanno iniziando a riprodurre pellicole fotografiche?

L’allarme per i miliardi di foto che non saranno mai stampate creando un buco iconografico per i prossimi anni, è già partito definendolo “Il Medioevo del 21° secolo”, come ci ha già raccontato Vincent Cerf, attuale vicepresidente di Google.
Un file digitale in jpeg o RAW non è garantito nel tempo.
Le storie di Hard Disk sputtanati e, peggio, con tutti i dati irrecuperabili, le conosciamo tutti.
Se perdo il fotofonino, potrò sì ancora vedere le mie foto sul cloud, ma chi mi garantisce che il server che ospita le mie foto esisterà almeno per i prossimi 50 anni?
Possiedo foto di famiglia di oltre 80 anni fa. Ma con il digitale, quale futuro iconografico stiamo invece consegnando ai nostri figli e nipoti?
Ricorderanno forse vagamente di aver fatto un viaggio strepitoso con la famiglia ma, lo sappiamo, la sola memoria distorce non poco la realtà e ci saranno fratelli che litigheranno perché i loro ricordi contrasteranno.

Nuovi malesseri sull'orizzonte della nostra civiltà
I neurologi avranno un gran bel da fare negli anni a venire perché senza foto che tramandino le storie di famiglia, le crisi d’identità, problemi di autostima ed altri disturbi della personalità saranno presumibilmente le problematiche principali da affrontare in una società che corre sempre più rapidamente verso la produzione e fruizione di immagini usa e getta, inutili, ridondanti ma, innanzitutto, nate già cancellate per far spazio ad altre e quindi mai stampate e conservate.

Senza foto del proprio passato, il proprio bagaglio emozionale ed esperienziale sarà impoverito e compromesso.
I nostri figli e nipoti non sapranno come erano fatti a due-quattro anni.
Generazioni future che non si troveranno mai a sfogliare un album di famiglia rimettendo in gioco emozioni e ricordi che non servono ad altro che a creare legami, sentirsi parte di una comunità come quella familiare o amicale.
Perché la personalità è fatta anche di feticismo iconografico, conservazione della propria memoria storica, narcisismo e comunque amor proprio.
E allora quanti bambini crederanno di non aver mai avuto una famiglia? Quanti si sentiranno “fuori dal gruppo” anche in età adulta? Quale sarà l’impatto sociale?

Io credevo di essere stato adottato e per tanti anni sono stato un bambino introverso. Poi trovai i negativi delle foto (mai stampate) che mi scattò mio padre in clinica con mia madre e i miei fratelli ed iniziai ad avere più fiducia nella gente, più stima in me stesso.

Foto, dunque sono. Esisto, sono esistito ed esisterò grazie alle foto.
E prima o poi stamperò quelle foto che mi ritraggono in clinica mentre poppavo.

giovedì 15 giugno 2017

“Adesso che fai? Vai via?”, il libro-simbolo della ricostruzione delle Marche

Claudio Ciabochi ha realizzato un libro i cui proventi della vendita serviranno a restaurare una tela del ‘700 della Cattedrale di Camerino devastata dal terremoto che ha colpito il cuore dell’Italia nel 2016.


Marco Maraviglia a Napoli con una copia del libro © L. Caldore
Un gesto simbolico ma concettualmente forte. Un sasso nell’oceano che dovrebbe far vergognare un po’ chi sarebbe invece preposto a gestire, preservare, conservare il nostro Patrimonio che rischia di essere ucciso dalla burocrazia per sempre.

La fotografia può essere "un’arma di costruzione di massa". La fotocamera in mano a chi ha tutte le qualità operative, imprenditoriali e la tenacia tipica del marchigiano, provoca un corto circuito nel sistema burocratico italiano, un “pieno insvuotabile” che osteggiarlo dimostrerebbe non solo incapacità a gestire la cosa pubblica ma totale grettezza e insensibilità al Patrimonio che ci appartiene.

Appartenenza, identità col territorio, sentirsi cittadino del Paese e vivere la tragedia del terremoto come se fosse stata compromessa la propria casa da mettere in salvo. Un senso di emergenza che vuole sopprimere, con un’azione positiva, quello di impotenza.

Cosa possiamo fare di fronte a un disastro sismico? Mandare un SMS? Metterci in un furgone stracarico di viveri e percorrere strade dissestate? Indossare una tuta ed elmetto e scavare passandosi le pietre in una catena umana?

Tutto può essere fatto. Tutto andrebbe fatto. E tutti siamo responsabili. Non di quello che accade senza nostre colpe ma di ciò che è dopo.

“Adesso che fai? Vai via?”, chiedeva il giornalista a un pastore all’indomani del terremoto. Si cerca di non mollare, di restare, di ricostruire, di rimettere in sesto stalle, granai, ovili, fienili e tutti gli impianti… Prima di pensare alla propria casa.

Claudio Ciabochi è un fotografo di Fabriano che ho conosciuto negli anni '90 e col quale instaurai una reciproca collaborazione. Una delle persone più serie e precise che abbia incontrato sul lavoro. Ricordo quando mi arrivavano i plasticoni con le sue diacolor tutte didascalizzate con estrema chiarezza e precisione e tutte con codice alfanumerico che lasciavano intendere l’altrettanta attenzione che aveva per lo storage.
Da alcuni anni Claudio è anche editore di Le guide in tasca che realizza guide turistiche alternative, ma già dalle prime scosse dell’agosto 2016 Claudio ha iniziato a immaginare questo libro, che adesso è già un bestseller, con immagini che raffrontano il prima e il dopo terremoto di località come Camerino, Visso, Norcia, Arquata del Tronto, Tolentino, San Severino Marche, Accumoli, Amatrice, Preci, ecc.

Non poteva starsene con le mani in mano e sa quanto la fotografia possa essere di estrema potenza per comunicare un messaggio, un bisogno… una richiesta di aiuto.

"La pesca miracolosa" dopo il terremoto © C. Ciabochi
Per questioni burocratiche, ci sono voluti tre mesi di varie vicissitudini per riuscire ad adottare l’opera da far restaurare: La Pesca Miracolosa di Jean Baptiste Jouvenet del XVIII secolo.

Introdotto da una presentazione di Tomaso Montanari che non risparmia critiche alle irresponsabilità istituzionali, seguono le pagine che mostrano i luoghi prima e dopo per lo più con foto scattate dagli stessi punti di vista. Un interessante documentario fotografico di parte del patrimonio italiano del quale si spera resti soltanto un documento di passaggio e che lo stato dei luoghi delle zone colpite venga presto ripristinato.

DOVE ACQUISTARE IL LIBRO

Il libro può essere acquistato su IBS, ma acquistandolo direttamente dall’editore è possibile fare un bonifico superiore a 10,00 euro se si intende dare un sostegno maggiore all’iniziativa (troverete la ricevuta all’interno del libro).

Col Patrocinio del MiBACT, della Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio delle Marche, dell’Arcidiocesi di Camerino – San Severino Marche e della Camera dei Deputati, il libro è stato recentemente presentato all'ultima edizione di La Fiera del Libro di Torino e a Milano in occasione della fiera Tempo di Libri.

venerdì 26 maggio 2017

Steve McCurry giurato di Master of Photography: permette una domanda?

Da ragazzo mi dicevo che un tradimento non è tutta la vita ché si poteva perdonare e potevi continuare a stare con la ragazza che amavi.
Con l’età sono diventato intollerante e voglio permettermelo di esserlo: se mi inganni non puoi avere più nessuna mia considerazione. Hai perso la mia fiducia. Le nostre strade si dividono. Ciao ciao.
Tolleranza zero. È il mio nuovo limite e mi piace. Involuzione caratteriale? Mi piace.


La fotografia è un continuo inganno. Un continuo tradire la fiducia dell’osservatore che non saprà mai oltre i quattro lati del perimetro di un’inquadratura cosa c’era al momento dello scatto.
Anche per osservare la fotografia più banale, a volte non basta guardare ma immaginare, riflettere. Perché se ti fermi di fronte alle due dimensioni e non attivi il pensiero, è come se stessi ascoltando passivamente un blablabla. Se poi preferisci crogiolarti in ciò che vedi, assorbire il messaggio che ti arriva, o ascoltare senza il desiderio di porti domande, va bene uguale. Ma non è il mio modo di fruire la vita.
Preferisco aprirmi un ventaglio di domande e cercare le risposte. Insomma, preferisco non farmi i fatti miei. Tradotto: sono curioso.


Chi ti sta raccontando ciò che vedi? L’amico di famiglia appena rientrato dalle vacanze o uno dei più grandi fotoreporter del mondo che sta scrivendo la storia attraverso le sue foto?
Tu vedi le foto e ti dici “ah, fantastico!” ma non sei fotografo e quindi non sai che se vai anche tu in quel luogo non troverai mai quei colori così saturi e non incrocerai nessun bambino che si punta una pistola alla tempia a meno che non glielo chieda tu magari offrendogli una colazione per lui e la famiglia.
Guardi e dai per certo ciò che vedi perché non hai gli strumenti per capire quanta mancata verità hai davanti. Perché non devi averceli quegli strumenti. Perché dovresti fidarti e basta per l’autorevolezza di chi ti mostra un mondo che non hai a due passi da casa.


Ho visto un uomo che al posto della tibia “calzava” un pezzo di palo di un segnale di una strada di Cuba.
Quell’uomo di colore l’hanno visto in tanti, poi altri hanno visto il bugnato sullo sfondo che aveva crepe che non erano crepe e c’erano pezzi mancanti sul bordo di un’auto presente in quella stessa immagine.
Fu così che nacque il caso-McCurry, il più grande fotografo del mondo della più grande agenzia fotografica del mondo che non sapeva quanto era successo a quella sua foto e si incazzò col tecnico di laboratorio che rimosse dall’incarico. Almeno così disse. Forse lo fece per davvero. Non mi è poi capitato di leggere alcuna intervista di questo tecnico di laboratorio che impasticciava le foto del più grande fotografo del mondo. Fatto sta che nessuno, né McCurry né il tecnico di laboratorio, ha mai spiegato cosa tecnicamente fosse successo di preciso a quell’immagine.


Un Photomerge non verificato nei dettagli prima di stamparlo in grande formato? Un tentativo maldestro di copia/incolla da altra foto per aggiungere/togliere qualcosa in quel punto?
Nessuna precisazione perché forse nemmeno alla Magnum sanno che la funzione photomerge del Photoshop non può correggere in automatico le aberrazioni provocate da oggetti/soggetti in movimento ripresi durante gli scatti da “photomergiare”.


Basta, la mia storia con McCurry finisce qui. Mi ha ingannato e tutte le sue immagini che osserverò in futuro, le passerò con diffidenza sotto il lentino. Resta però da lodare il fatto che sei arrivato in quei luoghi remoti, con alti rischi, con grandi sacrifici mangiando robaccia qui e lì trascorrendo nottate intere sveglio tra cecchini, esplosioni e fumi di pozzi di petrolio bruciati.
A proposito, ma se proprio vuoi drammatizzare il cielo rendendolo più scuro, non dimenticare di selezionarlo tutto, specie se poi devi stampare le foto in grande formato per una mostra perché può capitare che passi il Pierino di turno che cerca il pelo nell’uovo.


Se scopro che mi hai ingannato una volta, potresti averlo fatto anche altre volte o che potresti rifarlo; è uno sporco teorema d’amore. “A pensar male…"
Perché oltre a quel cielo forzatamente scurito, mi fa strano vedere quel proiettile messo in piedi sotto la canna di un tank sfidando un equilibrio che in guerra lo trovo improbabile. Perché non è adagiato a terra? E perché sta proprio lì? E perché quella vacca nera sta lì, da sola? Devo credere che non l’hai tirata fuori da un altro scatto per mettercela lì? Posso avere la libertà di dubitare pur non essendo mai stato in guerra?


Io non sono un fotoreporter, ma ho visto e so che non raramente una foto è preparata. A volte qualcosa è realmente accaduto e il fotografo ri-coreografa i soggetti per far ripetere la scena perché se l'era appena persa. Ricostruirla. Un altro ciak. Dal vero si passa al verosimile o, meglio, a una realtà ricostruita. Ma la “notte degli scoop” va oltre, fatta di copertine che spaccano mostrando improbabili spacciatori fuori le scuole e innanzitutto fuori fuoco, per dare una parvenza di vero, e VIP che sapevano di dover fare un tuffo nudi a Capri per tornare un po’ alla ribalta non prima di aver avvisato gli amici paparazzi o presunti tali o direttamente il direttore del giornale.
Se ti accorgi che c'è un pacchetto di sigarette accartocciato sotto una balaustra solo al momento di inviare la foto di un monumento all'editore, che fai? Croppi o ritocchi? E venti anni fa come ti regolavi quando scattavi su dia?
La tentazione del ritocco è forte, tanto il profano non se ne accorgerà. È una vecchia storia. Il milite di Capa è una vecchia storia. Certe foto di regime sono vecchia storia. La menzogna è una vecchia storia.


È un mio limite. Quello di non credere più a nulla. È più vero ciò che immaginiamo che quello che vediamo. I colori saturi già è una cosa che non fa tanto giornalismo ma che sfiora l’artistico. Ma non è questo ciò che mi turba. In effetti nulla mi turba ma semplicemente me li fa girare, a me che quando scontorno una porzione di foto non mi basta cliccare due volte sullo strumento lente ma ingrandisco oltre il 100% cercando la perfezione certosina. A me che ne trovo tanti di pasticci di postproduzione in varie mostre pensando che io invece non posso permettermi di sbagliare perché non essendo famoso rischio di cadere definitivamente nell'oblio. A me che per migliorare un lavoro chiedo l’aiuto di colleghi, grafici, artisti, organizzando un happening per avere i loro suggerimenti. A me che i fumi non li saturo senza accorgermi di non aver selezionato un buchetto, ma me li creo direttamente col Photoshop.


Chi ha visto da vicino, ma veramente da vicino le foto stampate di McCurry?
Lo chiedo a chi osanna il lavoro di McCurry: chi ha mai visto i suoi RAW da vicino, sul monitor, mentre vengono scaricati?
Personalmente se non vedo quelli mi restano tanti dubbi. E secondo me, dopo aver visto le sue foto in occasione di una mostra, un minimo di competenze per dire che gran parte di esse sono state scattate direttamente in jpeg, credo di averle; perché se nelle zone neutre oltre ad esserci un eccesso di rumore del colore, l’artefatto è troppo evidente, mi fa strano. O hai scattato a 25mila ISO in pieno giorno?
E voglio avere i miei dubbi su quel tipo con la giacca che passeggia con le mani in tasca e
senza che io capisca quei piedi dove affondano, ma innanzitutto, da quale sentiero sta provenendo? Ha fatto un salto da un paio di metri dietro di se? L’ha fatto mantenendo le mani nelle tasche?
E riguardo certe sfocature in altre immagini? Che diaframma usa? Un f:2.8 “intermittente”? Ma siamo sicuri che i campi sfocati non si confondono con quelli che dovrebbero essere realmente nitidi? Esistono fotocamere che restituiscono diverse profondità di campo al momento dello scatto? E in che dosi mi fai le spennellature in camera-raw?


Queste sono cose che mi riservo di raccontare solo in occasione degli incontri fotografici che tengo con allievi curiosi; cioè mi pagano per ascoltarle. Che vi piaccia o no. Ma ho deciso di raccontarvene qualcuna in questo post.
Potrei aver farneticato su qualcosa, ma sai, io che non ho il curriculum di chi ha lo studio che affacciava sulle torri gemelle, cerco di osservare chi ha successo per cercare di apprendere qualcosa, per migliorarmi e a volte, osservando osservando, cerco di darmi spiegazioni a ciò che non mi torna.


A me non interessa solo ciò che professionalmente hai fatto ieri, ma cosa sei diventato oggi grazie al tuo ieri. A me interessa come stai chiudendo la tua carriera. Se sei stato un ottimo cavallo da corsa, sarai messo a fare lo stallone o la mamma e nasceranno nuovi campioni. Ma se ti sei dopato per vincere, anche i tuoi figli dovranno doparsi per vincere.
La lealtà in certe sfere della vita personale o professionale, che grado di importanza ha per chi ci segue? È più coraggioso bluffare o dire la verità?


Caro Steve McCurry, vorrei essere un editore per poterti pubblicare tra cent'anni l’ultimo libro della tua vita con video annesso per darti la possibilità di dimostrare che invece, dai RAW al dopo, c’è poca differenza. Per renderti giustizia per sempre e lasciarti la meritata gloria maturata col tuo brillante back-ground.
Perché sai, a me questa storia che sarai giurato in un talent come Master of Photography mi sa tanto da “Isola dei Famosi” dove ci vanno tipi un po' sfigati che nessuno se li fila più. D’altro canto da certi “talent” televisivi sono usciti certi cantanti che non abbiamo più visto in circolazione: sono proprio usciti, in tutti i sensi!!


Che ruolo avrai come giurato in questa grande invenzione di Sky Arte quale Master of Photography? A cosa baderai? All’aspetto compositivo delle immagini? Al contenuto giornalistico? Alla postproduzione delle immagini prodotte dai partecipanti? All’etica, alla lealtà nel fotogiornalismo? Alla commerciabilità delle immagini?


O alla credibilità che può avere un pezzotto?

lunedì 20 marzo 2017

Perché "Rhein II" è la fotografia più quotata della storia

“Rhein II” di Andreas Gursky. Scattata nel 1999. Ritrae uno scorcio del fiume Reno. Nel 2011 è stata venduta ad un collezionista anonimo al prezzo di 4,338,500 dollari. Cerchiamo di capire perché.


Quella regola dei due terzi
A prima vista sembra l’immagine più banale di questo mondo, la tipica foto che “la potevo fare anch’io”. Anzi, un fotoamatore incallito con la sua regolina dei due terzi nemmeno la scatterebbe perché non inquadrerebbe mai l’orizzonte disposto al centro: “sarebbe sbagliato”, secondo i circoli fotografici della prima generazione ma anche a parer di certi docenti di fotografia. Eppure c’è chi ha speso oltre 4milioni di dollari per averla.
È folle spendere una cifra simile per un’immagine così semplice, banale, in cui sembra di vedere il nulla?

Forme, colori, parole giuste nella comunicazione
Facciamo un passetto indietro, catapultiamoci in quelli che erano i trattati dei pubblicitari degli anni’60-’70 che studiavano come rendere la comunicazione efficace. I David Ogilvy, Jacques Séguéla, Rosser Reeves e dintorni, analizzavano i comportamenti dei consumatori, testavano quali erano le forme, i colori, le parole più adatte al coinvolgimento emotivo dei target potenziali.

I colori caldi e quelli freddi, le forme tonde e quelle spigolose. Cose studiate anche dai migliori designer ed architetti che intendono accattivarsi un pubblico psicologicamente percettivo ed indipendente piuttosto che quello volto a seguire i trend. Roba da Bauhaus, cose di Gestalt, roba di ergonomia.

L'armonia, pace per la mente
Se visitiamo Hundertwasserhaus o attraversiamo le stanze di una casa di Gaudì, ci rendiamo conto di cosa stiamo parlando. Ogni dettaglio è curato secondo quelle che sono le relazioni uomo/natura. Anche il corrimano di una scala deve accogliere in maniera comoda la mano dell’ospite che la sale.
È l’armonia che ci rasserena, ci infonde un benessere psicologico e, di riflesso, fisico.
Il disordine esterno provoca disturbi nella concentrazione, stressa.
Se riordini la scrivania, immediatamente dopo hai la sensazione di avere le idee più chiare.

L'arte greca? Bellezza matematica!
Se andiamo ancora più indietro scopriamo che prima ancora sono stati concepiti i canoni di bellezza attraverso il pensiero di Aristotele in cui le giuste proporzioni sono bellezza assoluta in quanto matematica, rapporti geometrici aurei. Concetti ripresi anche negli anni a seguire da artisti, matematici, architetti: dall’Uomo Vitruviano di Leonardo alla Divina Proportione di Luca Pacioli che riprendeva concetti di Piero della Francesca e via di seguito.

E l'Oriente sbaraglia tutti
La nostra macchina del tempo approda infine nelle filosofie orientali di millenaria provenienza. Parole come zen, yin e yang, enso, karma… ci riconducono tutte a concetti di equilibrio ed armonia tra corpo e mente. Benessere psico-fisico. L’ordine esterno ci tranquillizza. È una condizione naturale che costantemente il nostro Io ricerca. Appagamento. Pace.

Un'opera Yin Yang
Non sappiamo nulla del collezionista che ha speso oltre 3milioni di euro per entrare in possesso di Rehin II, ma questa lunga premessa era semplicemente per dire che è entrato in possesso di un’immagine aurea e non certo banale in quanto i rapporti tra le strisce cielo/prato/fiume hanno una loro magica perfezione. La sua estetica si risolve nel suo ritmo aureo: l’immagine è Yin Yang.
Una composizione fatta di due metà: una interamente destinata al cielo e l’altra che si contrappone ad esso con una sequenza equilibrata, matematica, di linee.
Due metà complementari. L’opposizione dei contrari: il nulla, la neutralità del cielo e il complesso dei rettangoli di acqua e prato. L’immateriale del cielo e il materiale della parte sottostante alla linea d’orizzonte.

È quell’equilibrio che cerchiamo di ritrovare nella nostra mente e anche solo osservandola, ci conduce alla tranquillità. Azzera (attenua) il caos dentro in un contesto definibile come "fotografia terapeutica".

Molto probabilmente lo stesso fotografo che l’ha scattata, Andreas Gursky, non sa nemmeno lui perché tanta attrazione per questa foto da parte del mondo del collezionismo, tra l’altro anche manipolata digitalmente per eliminare sullo sfondo fabbriche e cani che, se fossero stati lasciati, ne avrebbe perso il senso.

È “l’immagine perfetta”? Chi lo sa, ma sicuramente non è enigmatica.
Almeno non più dopo avervene svelato un probabile significato del suo contenuto.

© Marco Maraviglia


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sabato 25 febbraio 2017

HELMUT NEWTON, IL FOTOGRAFO FEMMINISTA

Dal 25 febbraio al 18 giugno 2017, saranno esposte al PAN – Palazzo delle Arti Napoli, oltre 200 foto del fotografo di moda Helmut Newton.
Eccone una chiave di lettura.



Attualmente è uno dei fotografi di moda più imitati al mondo ma inimitabile. Perché pochi come lui hanno fotografato le donne scavalcando la barriera maschilista ponendosi sul terreno della complicità, del gioco, dell’ironia, del rispetto dell’imperfezione.


Quei favolosi anni '80
Helmut Newton, Saddle I, Paris 1976
Bisogna catapultarsi un attimo oltre 30 anni indietro per lasciarsi emotivamente coinvolgere dalle foto di Newton e comprenderne alcuni aspetti estetici.

In quel periodo c’era un clima da secondo boom economico, le aziende investivano in pubblicità con fatturati che non sono stati mai più raggiunti, nasceva “l’edonismo reganiano”, così coniato dal lookologo Roberto D’Agostino. Scomparsi gli hippy subentrarono yuppy tirati a lucido, capelli ingelatinati, manager di successo del terziario il cui scopo fondamentale era denaro e bella vita.

In Italia con la liberalizzazione delle frequenze TV, si uscì fuori dagli stereotipi della televisione di Stato e si aprì un mondo nuovo, fiorirono le reti televisive che mostravano l’opulenza, l’eccesso chic e kitsch di forme di vita prima sconosciute. E la grande moda entrava nelle case di tutti.
Si rincorrevano i modelli di bellezza delle riviste patinate, corpi tonici e tosti, culi sodi e tartarughe e quasi in ogni strada c’era una palestra per il body-building.
Incombente era il fantasma, ma mica tanto, dell’AIDS. La morte di personaggi del mondo dello spettacolo e dell’arte erano come i peggiori spot pubblicitari che creavano il terrore di fare sesso e la frustrazione del non farlo.

Il benessere alimentava desideri orgiastici attivando meccanismi mentali tra cui lo sviluppo della cultura dell’erotismo. Riviste come Playboy, Playmen, Hustler diventavano superate di fronte a quelle che invece erano “storie di erotismo” come 9 settimane e ½ di Adrian Lyne, regista di grandi spot pubblicitari che irrompeva nel cinema con un nuovo genere ritmico, emozionale, “fotografico”.
Fiorivano le riviste di spettacolo, fotografia, moda e fu in quel periodo che nacquero i primi nudi nella fotografia di moda il cui pioniere fu Helmut Newton.

Le modalità operative
In un piccolo spazio della mostra al PAN c’è la possibilità di vedere un filmato che consiglio di non perdersi. È realizzato da June Newton, moglie del fotografo e si evincono le caratteristiche del modo di rapportarsi con le modelle.
Punto di forza della professionalità di Helmut Newton era la capacità di stabilire un contatto alla pari coi suoi soggetti da riprendere.
Era solito prestare la sua fotocamera alle modelle affinché si ritraessero allo specchio per farle sentire a proprio agio. Alcuni di quegli scatti furono poi pubblicati sulla rivista Elle e per un libro. Altro che selfie di oggi!!!

La modella era innanzitutto persona. Una donna che poteva anche avvelenare o soffocare con un cuscino il marito, parodiando i fatti di cronaca in veste “pop-pulp”. La femminilità non era oggetto ma l’arma per raccontare una personalità sì seducente, ma non per questo sottomessa.

L'erotismo
Nelle immagini di Newton c’è una tensione erotica rilassata, naturale. Come le pose di Lisa Lyon nelle quali non è esaltata come dalla graficità tipica delle immagini di Robert Mapplethorpe, ma È LEI contestualizzata e con quella sua muscolatura che la riporta alla bellezza classica dei canoni greci.

L’abilità di realizzare nudi con una forte carica erotica senza sfociare nella volgarità è una roba per pochi addetti ai lavori. La posizione delle mani in una fotografia di moda ti fa capire lo spessore professionale del fotografo.

Il ritratto a Charlotte Rampling è una storia. Intima. Un invito forte ma delicato all’osservatore di concedersi bacco, tabacco e venere. Sul tavolo su cui è seduta l’attrice, oltre al pacchetto di sigarette e una coppa, c’è una chiave. Un dettaglio che apre a un immaginario che va oltre il nudo stesso.
La serie “vestite e svestite” mostra un’ironia che soggioga la fantasia maschile, magari proprio quella di chi desiderava acquistare gli occhiali a raggi X (ma qualcuno li ha mai comprati?) per vedere sotto le vesti delle donne. Ecco, sembra vogliano dirci, “mi vedi vestita? Ti mostro anche il mio corpo”, smontando lo stimolo voyeurustico anche al più allupato degli uomini o sortendo quell'effetto ironizzato da Elliot Erwitt per la Maya vestita e desnuda di Goya.
© Elliot Erwitt; Maya desnuda e Maya vestita; 1951

Ma il voyeurismo stimolato da Newton è anche inverso con i brillanti “outdoors” realizzati sulle terrazze di New York o dalle finestre di Parigi. “Aho’, sto ignuda davanti a tutti ma nun me puoi vedè”.

La metafora
Incontriamo immagini spesso metaforiche, allusive, dove il sesso sembra vissuto a volte con intenzione sadomaso ma è il paradosso che vince, come il surrealismo di una sella sulla schiena o una corda che lega la modella sorridente a un manichino.
La donna in ginocchio che porge la bocca alla coppa del compagno posta in maniera eloquente ma quello stesso compagno non vede che la sua donna porge una mano sulla gamba di un altro. Quasi un volerci ricordare che trattandole con noncuranza possono fregarci.

Due uomini rimasti soli non possono che concedersi l’accensione di una sigaretta non da una donna, ma da un manichino in versione glamour.

Il genio
E poi la genialità di anticipare film come La morte ti fa bella o La grande bellezza (la scena di quando le donne stanno in fila per i trattamenti di butolino), ritraendo donne in improbabili beauty-farm che sembrano invece luoghi di tortura al proprio corpo che andrebbe invece vissuto secondo il tempo che trascorre. Perché la bellezza non è perfezione fisica ma anche un culo cascante, le tette piatte, il segno di uno slip sulla pelle. In una foto di nudo ci stanno. Ma non tutti possono permettersi di immortalare con maestria tutto ciò.

L'imperfezione
Il buon rapporto di Newton con l’imperfezione si evince anche da alcune sue inquadrature non sempre in asse sotto l’aspetto architettonico (v. il salotto della serie “Villa d’Este”), dalla grana spinta nei forti ingrandimenti del 35mm, da un fuori fuoco o micro-mosso. Perché ciò che conta è l’impatto, l’idea e a volte l’istintività nello scattare senza badare a quanti ISO hai in macchina in quel momento o se la luce è quella giusta. Perché era evidentemente consapevole che la sensualità delle cose è nei suoi limiti.

Complicità sul set fotografico
Matthias Harder e Denis Curti, curatori della mostra
L’autoritratto con moglie e modella è l’immagine portante della comunicazione della mostra. L’apoteosi del modo di lavorare di Newton, confidenziale, interpersonale, schietto. Le modelle non temono l’obiettivo e la creatività del fotografo perché l’atmosfera è familiare, sempre complice in quanto per lo più “presidiata” dalla presenza della moglie.

Il fotografo sociale
Il nudo come Grande Bellezza che sembra voler combattere le storture maniacali, psicotiche, di un certo genere umano raggiunge l’apice con le foto stampate in grande formato realizzate quando vide che il governo tedesco affisse manifesti giganti dei ricercati della RAF. Concettualmente il male, il brutto, la violenza, possono essere combattuti inondando di bellezza la nostra vita intorno.
Anche fotografo sociale? Sì, possiamo dirlo.

Stampe fotografiche analogiche
Denis Curti, curatore in tandem con Matthias Harder della mostra, garantisce che tutte le foto non sono stampe digitali. Quindi andate ed immergetevi nel mondo di Helmut Neustädter alias Newton, un fotografo femminista che ci ha lasciato una grande eredità per amare le donne.


INFO:
Al PAN - Palazzo delle Arti Napoli
Dal 25 febbraio al 18 giugno 2017

domenica 8 gennaio 2017

Bentornata pellicola Ektachrome

Sembra che a fine anno (2017) la Kodak tornerà a produrre la Ektachrome, una pellicola invertibile (qualcuno preferisce dire “diapositiva”) tanto amata dai fotografi della generazione analogica.

Ma c’è veramente bisogno di pellicole?

Sono quello che afferma spesso che “una fotografia non è tua, veramente tua, se non ne possiedi il supporto analogico” perché un supporto analogico è per me più affidabile di un file digitale.

Alcuni dei primi CD su cui caricai le mie prime immagini digitali (anno 2000), sono saltati, resi illeggibili dai capricci della tecnologia. Erano conservati in custodie rigide, lontani da fonti di luce, calore, umidità ma dopo qualche anno che li rimisi nel lettore… pfuff… file scomparsi.
E non raramente mi è capitato di sentire amici e colleghi che hanno perso i loro ultimi terabyte di vita fotografica perché il potentissimo hard-disk ha deciso di morire.
Non mi dite per favore che deve essere tutto backuppato perché la tecnologia per me i problemi deve risolverli e non crearmeli.

L'archivio fotografico analogico è più sicuro?
Diapositive anni '90 contenute in un plasticone
Di una foto stampata o una pellicola negativa o invertibile che sia, una lastra fotografica, puoi avere un controllo costante della sua conservazione. Sai che macchie di muffa sui supporti si fanno se lo storage, l’archiviazione, è fatta in ambienti umidi e poco ventilati. Sai che per preservare da incendi l’archivio devi utilizzare scaffalature e cassettiere ignifughe. Magari contenere le lastre in scatole di vetro perché quelle originali in cartone potrebbero produrre, a lungo andare, insetti. In casi estremi è possibile utilizzare il “sottovuoto” sigillando plasticoni e veline porta-negativi. Ma qui sforiamo nel maniacalismo…

Insomma, dei supporti analogici hai un controllo diretto della conservazione delle immagini. Dei file digitali no.


I file digitali li potremo leggere per sempre?

Ma c’è un altro problema che va al di là del supporto hard, del dischetto, dell’hard-disk, delle pennette USB, delle schede sd.
Chi ci garantisce che potremo vedere per sempre le nostre jpeg sui nostri computer?
Chi ci garantisce che le grandi case produttrici di software continuino per sempre ad utilizzare il codice jpeg della IJG (Independent JPEG Group) e non decidano di utilizzare esclusivamente formati proprietari spacciandoli per “più potenti”? In realtà è ciò che già succede utilizzando il formato RAW ma i bravi fotografi sanno che conviene selezionare le foto migliori e salvarle anche in jpeg.
Inoltre, chi ci garantisce che i sistemi operativi contengano per sempre il codice di decompressione del jpeg per consentirci di vedere i nostri vecchi file fotografici?
Nessuno.

Sebbene il codice sorgente del jpeg sia gratuito e messo a disposizione di tutte le case produttrici di hard e software, queste ultime non hanno mai fatto un “giuramento” per garantirci illimitatamente la lettura del jpeg attraverso i loro prodotti.


La pellicola diapositiva...
Se la Kodak introduce nuovamente una pellicola come la Ektachrome, non credo che sia una decisione suicida. Perché di potenziale suicidio economico si tratterebbe se un’azienda decidesse di intraprendere un’iniziativa senza aver sondato prima bisogni e desideri del mercato.

La sicurezza che consente la gestione controllabile di un supporto fotografico fisico la preferisco in quei casi in cui si voglia avere una maggiore certezza dell’esistenza della fotografia.
Se la tocco esiste. I pixel appartengono all’hard-disk ma non a me.


Il restauro di una foto: file digitale o analogico?
Sto terminando di leggere In opera; conservare e restaurare l’arte contemporanea di Isabella Villafranca Soissons e c’è un’intervista fatta a un collezionista che mi ha colpito riguardo il problema del restauro di una Cibachrome che in un angolo della stampa presentava un’opacità.
Bene, il “restauro” fu fatto semplicemente rifacendo la stampa in Cibachrome visto che l’artista conservava ancora in perfetto stato la diapositiva originale.

Se si fosse trattato di una stampa fineart da file digitale si sarebbero presentati probabilmente altri generi di problemi, tipo l’estinzione del file per “capriccio tecnologico” di cui parlavo più sopra o anche la difficoltà di correggere l’opacità riproducendo l’immagine per poi sottoporla a un complicato processo di postproduzione.

Perché una cosa è fare un fotoritocco per rimuovere segni di taglio, polvere, graffi o ridare colore a una vecchia foto e altra cosa è riportare una sola porzione di immagine alla sua vivacità originale.

Parliamo di foto vendute nel mercato dell’arte. Un settore delicato, quello dell’arte contemporanea, in cui solo negli ultimi anni si stanno iniziando a pensare tecniche di conservazione e restauro che rispettino le intenzionalità dell’artista.

E le pellicole sono le ben ritrovate in questi casi.