domenica 8 gennaio 2017

Bentornata pellicola Ektachrome

Sembra che a fine anno (2017) la Kodak tornerà a produrre la Ektachrome, una pellicola invertibile (qualcuno preferisce dire “diapositiva”) tanto amata dai fotografi della generazione analogica.

Ma c’è veramente bisogno di pellicole?

Sono quello che afferma spesso che “una fotografia non è tua, veramente tua, se non ne possiedi il supporto analogico” perché un supporto analogico è per me più affidabile di un file digitale.

Alcuni dei primi CD su cui caricai le mie prime immagini digitali (anno 2000), sono saltati, resi illeggibili dai capricci della tecnologia. Erano conservati in custodie rigide, lontani da fonti di luce, calore, umidità ma dopo qualche anno che li rimisi nel lettore… pfuff… file scomparsi.
E non raramente mi è capitato di sentire amici e colleghi che hanno perso i loro ultimi terabyte di vita fotografica perché il potentissimo hard-disk ha deciso di morire.
Non mi dite per favore che deve essere tutto backuppato perché la tecnologia per me i problemi deve risolverli e non crearmeli.

L'archivio fotografico analogico è più sicuro?
Diapositive anni '90 contenute in un plasticone
Di una foto stampata o una pellicola negativa o invertibile che sia, una lastra fotografica, puoi avere un controllo costante della sua conservazione. Sai che macchie di muffa sui supporti si fanno se lo storage, l’archiviazione, è fatta in ambienti umidi e poco ventilati. Sai che per preservare da incendi l’archivio devi utilizzare scaffalature e cassettiere ignifughe. Magari contenere le lastre in scatole di vetro perché quelle originali in cartone potrebbero produrre, a lungo andare, insetti. In casi estremi è possibile utilizzare il “sottovuoto” sigillando plasticoni e veline porta-negativi. Ma qui sforiamo nel maniacalismo…

Insomma, dei supporti analogici hai un controllo diretto della conservazione delle immagini. Dei file digitali no.


I file digitali li potremo leggere per sempre?

Ma c’è un altro problema che va al di là del supporto hard, del dischetto, dell’hard-disk, delle pennette USB, delle schede sd.
Chi ci garantisce che potremo vedere per sempre le nostre jpeg sui nostri computer?
Chi ci garantisce che le grandi case produttrici di software continuino per sempre ad utilizzare il codice jpeg della IJG (Independent JPEG Group) e non decidano di utilizzare esclusivamente formati proprietari spacciandoli per “più potenti”? In realtà è ciò che già succede utilizzando il formato RAW ma i bravi fotografi sanno che conviene selezionare le foto migliori e salvarle anche in jpeg.
Inoltre, chi ci garantisce che i sistemi operativi contengano per sempre il codice di decompressione del jpeg per consentirci di vedere i nostri vecchi file fotografici?
Nessuno.

Sebbene il codice sorgente del jpeg sia gratuito e messo a disposizione di tutte le case produttrici di hard e software, queste ultime non hanno mai fatto un “giuramento” per garantirci illimitatamente la lettura del jpeg attraverso i loro prodotti.


La pellicola diapositiva...
Se la Kodak introduce nuovamente una pellicola come la Ektachrome, non credo che sia una decisione suicida. Perché di potenziale suicidio economico si tratterebbe se un’azienda decidesse di intraprendere un’iniziativa senza aver sondato prima bisogni e desideri del mercato.

La sicurezza che consente la gestione controllabile di un supporto fotografico fisico la preferisco in quei casi in cui si voglia avere una maggiore certezza dell’esistenza della fotografia.
Se la tocco esiste. I pixel appartengono all’hard-disk ma non a me.


Il restauro di una foto: file digitale o analogico?
Sto terminando di leggere In opera; conservare e restaurare l’arte contemporanea di Isabella Villafranca Soissons e c’è un’intervista fatta a un collezionista che mi ha colpito riguardo il problema del restauro di una Cibachrome che in un angolo della stampa presentava un’opacità.
Bene, il “restauro” fu fatto semplicemente rifacendo la stampa in Cibachrome visto che l’artista conservava ancora in perfetto stato la diapositiva originale.

Se si fosse trattato di una stampa fineart da file digitale si sarebbero presentati probabilmente altri generi di problemi, tipo l’estinzione del file per “capriccio tecnologico” di cui parlavo più sopra o anche la difficoltà di correggere l’opacità riproducendo l’immagine per poi sottoporla a un complicato processo di postproduzione.

Perché una cosa è fare un fotoritocco per rimuovere segni di taglio, polvere, graffi o ridare colore a una vecchia foto e altra cosa è riportare una sola porzione di immagine alla sua vivacità originale.

Parliamo di foto vendute nel mercato dell’arte. Un settore delicato, quello dell’arte contemporanea, in cui solo negli ultimi anni si stanno iniziando a pensare tecniche di conservazione e restauro che rispettino le intenzionalità dell’artista.

E le pellicole sono le ben ritrovate in questi casi.